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Capita sovente che un contratto contenga una o più clausole penali. La prassi dell’Agenzia delle Entrate è quella di tassare autonomamente ciascuna clausola ai fini dell’imposta di registro.

L’art. 21, comma 1, del Testo unito registro stabilisce che  “Se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto”. Il comma 2, prevede che: “Se le disposizioni contenute nell’atto derivano necessariamente, per loro intrinseca natura, le une dalle altre, l’imposta si applica come se l’atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa”.

Dunque, la clausola penale contrattuale non è soggetta a autonoma tassazione ai fini dell’imposta di registro come sostiene l’Agenzia. Essa soggiace alla regola dell’imposizione della disposizione più onerosa prevista dal secondo comma della norma citata. Essa ha natura accessoria perché rappresenta una disposizione del tutto dipendente dall’obbligazione principale, senza la quale non esisterebbe; non ha una causa propria e distinta, ma ha una funzione servente e rafforzativa intrinseca al contratto in cui è inserita. Lo scopo della clausola è quello di sostenere l’esatto, reciproco, tempestivo adempimento delle obbligazioni “principali” assunte con il contratto.

Questo il principio di diritto sancito dalla Suprema Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 30983 del 7 novembre 2023. Questa decisione è la prima pronuncia della giurisprudenza di legittimità sul tema.